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Ventimiglia, 25 aprile 1945, era un mercoledì...

“Barbagiuà”, il nuovo romanzo di Enzo Iorio, è ambientato a Ventimiglia, durante la Seconda guerra mondiale. Ecco il capitolo sul 25 aprile.


 La storia
Nino è un bambino cresciuto durante la Seconda guerra mondiale. Rimasto orfano in conseguenza delle bombe cadute su Ventimiglia nel ‘43, ha vissuto innumerevoli avventure tra la costa e l’entroterra, scappando da Sanremo a Bajardo, da Pigna a Triora, forse alla ricerca dell’affetto perduto tra le macerie: dapprima ha conosciuto l'orfanotrofio, in seguito è stato adottato da una matta che voleva trasformarlo nella sua bambina scomparsa, ha vissuto la vita del bordello, la durezza della prigione, il dolore delle percosse e l’onore del silenzio. Rifugiatosi nei boschi tra i cinghiali,  è infine diventato la mascotte di un gruppo di partigiani.
Sempre affamato e a caccia di cibo, è chiamato Barbagiuà per via del suo piatto prediletto.


[...]
“Barbagiuá, non andare a Ventimiglia. È troppo rischioso!”, mi aveva detto il comandante Ortis qualche giorno prima.
Ma io, quel mercoledì 25 aprile, avevo la tasca piena di dollari e sentivo che era giunto il momento di pareggiare un vecchio conto. Non sapevo quale fosse la somma esatta di cui ero entrato in possesso, perché appena avevo cominciato a contare quelle belle banconote verdi mi ero accorto che, non avendo più toccato un quaderno a quadretti dal giorno del bombardamento in cui avevo perso tutta la mia famiglia, e senza l’assillo dei compiti quotidiani, non solo avevo dimenticato le tabelline, delle quali peraltro eravamo arrivati solo a quella del 7, ma avevo perduto anche la facilità di sommare numeri più grandi del dieci. Comunque, anche se il mio cervello si era un po' arrugginito per le quattro operazioni, sapevo ancora contare cinque biglietti da dieci, quattro da cinque e sette da uno. Insomma ero ricco!
Ripensai al tedesco ubriaco fradicio al quale li avevo sottratti poche sere prima. Non mi piaceva rubare, ma dato che in Germania usavano i marchi, mi consolava l’idea che un soldato del fuhrer che se ne andava in giro con dei dollari in saccoccia doveva averli sicuramente rubati a qualche americano, forse dopo averlo ucciso, e ciò mi faceva sentire una specie di giustiziere o, quanto meno, allontanava dalla mia coscienza il senso di colpa.
Fatto sta che con tutto quel denaro in tasca me ne scendevo verso Ventimiglia. La giornata appariva splendida e la mia bicicletta sgangherata filava verso il fondovalle che era una meraviglia.

Girava voce che la guerra fosse finita. Molti non ci credevano e, anche se qualcuno aveva sentito alla radio che a Milano e in altre città dell’Alta Italia si stavano preparando grandi festeggiamenti proprio per il 25 aprile, i miei compagni partigiani e soprattutto il comandante Ortis, tendendo l’orecchio al rombo degli aerei e all’artiglieria che continuavano a bombardare la costa, dicevano che da noi la guerra non era ancora conclusa e che i problemi sarebbero durati ancora a lungo.
“Una volta andati via i crucchi, dovremo vedercela coi francesi che cercheranno di approfittare dell’occasione per occupare tutto il Ponente dal mare fino a Briga, Tenda e oltre”, diceva Ortis e pertanto cercava di agire con grande cautela per non sacrificare inutilmente i suoi uomini e per essere pronto a qualsiasi evenienza. Quando gli avevo confidato che volevo scendere verso il mare per andare a mangiare il gelato a Ventimiglia, si era fatto una gran risata e poi, serio, aveva scosso la testa: “Bisogna stare molto attenti ai tedeschi in ritirata. Stanno minando dappertutto, Barbagiuá, e passare dai vivi ai morti è un attimo.”
Mi fidavo del mio comandante, ma l'idea di tornare nella mia città era più forte di qualsiasi rischio e perciò da qualche giorno mi ero allontanato di nascosto dall’accampamento. Ero abituato da tempo a muovermi per i boschi e le montagne da solo e, nonostante i guai in cui mi ero già cacciato in passato, ancora non avevo imparato ad agire in maniera meno avventata e testarda. Tuttavia ero preoccupato: se mi avessero preso i mangiapatate o i saloini, avrei avuto un bel da fare per spiegare dove avevo preso i dollari. Soprattutto: sarei riuscito anche stavolta a tenere la bocca chiusa sul nascondiglio e i movimenti della mia squadra?
In precedenza mi era già capitato di sopravvivere a valanghe di botte senza mai tradire i miei compagni, ma avevo sentito dire che ultimamente i tedeschi facevano delle iniezioni di una medicina che scioglieva la lingua pure ai muti e perciò dovevo stare molto attento.
Le ruote della vecchia Bianchi giravano dannatamente bene e man mano che scendevo verso il Nervia l'aria diventava più tiepida. Sentivo la primavera sulle faccia e sulle gambe, sempre nude e piene di graffi per via dei pantaloncini corti che portavo sia d'estate che d'inverno.

Mancavo da Ventimiglia da parecchi mesi e desideravo fortemente che fosse davvero scoppiata la pace. L’ultima volta che ci ero stato era ridotta a un cumulo di macerie, senza luce e affamata come un cane randagio. Provai a immaginare la città vestita a festa, con la gente che ballava per le strade gridando “Viva i partigiani”, e siccome io ero uno di loro, mi aspettavo perfino che qualcuno, riconoscendomi come tale, mi offrisse da bere e da mangiare a sbafo per le azioni che NOI avevamo messo a segno contro i nazifascisti.
Per la strada non incrociavo nessuno e il silenzio delle colline che si svegliavano lentamente in quel mattino di aprile mi mise addosso la voglia di cantare. Cominciai prima sottovoce e ben presto mi ritrovai a urlare a squarciagola...

Quell’uccellin che vien dal mare,
che viene a dire?
Che viene a fare?
Sul tuo balcon verrà a posare
un mazzolino di fiori per te.

Stonavo da far paura, ma era troppo bello sentire la mia voce che se ne andava su per il cielo come l’uccellino della canzone. Pedalando a quella velocità sarei arrivato a Ventimiglia nel giro di una mezz'ora e pregustavo già il mio gelato. Mi vedevo seduto al tavolino del bar più bello della città. Veniva a servirmi il padrone in persona, quella faccia di topo che giusto due anni addietro, afferrandomi per un orecchio, mi aveva trascinato lontano dai clienti ai quali chiedevo con insistenza un cucchiaino di zucchero sulla lingua. “Non disturbare le persone per bene, piccolo straccione delinquente!”, mi aveva detto proprio così.
Adesso mi sarei seduto allo stesso posto, avrei accavallato le gambe e avrei schiaffato un bel biglietto da venti dollari sul tavolino.
“Voglio un gelato cioccolato e fragola. Nella coppa più grande che avete. E presto, perché ho delle commissioni importanti da svolgere”, ecco avrei detto precisamente questo, e ad alta voce.
Ripetei la frase diverse volte, cambiando il tono e l’espressione, e l'effetto mi sembrava via via più severo e convincente. La cosa mi rendeva pieno di gioia, ma quando giunsi in vista del castello di Dolceacqua, mi si gelò il sangue nelle vene e il canto mi morì in gola.
All'altezza del ponte a schiena d’asino, fermo in mezzo alla carreggiata che si affacciava sul torrente, c'era un camion tedesco coricato su un fianco.
Rallentai di colpo...
Scrutando meglio, notai anche un paio di grosse motociclette militari e diversi uomini della milizia fascista armati di tutto punto.
Uno di loro mi indicò agli altri. Mi fecero segno di avvicinarmi.
Ormai non potevo più fare marcia indietro, a meno che non desiderassi prendermi una sventagliata di mitra nella schiena.
Il cuore prese a battermi come un tamburo e vidi il gelato che sognavo da mesi sciogliersi all’improvviso e colare fuori dalla coppa.
Quando fui a una ventina di metri, riconobbi il tedesco che avevo derubato.

[ continua...]

Non sappiamo se e come Barbagiuà uscirà da questo episodio, ma vale la pena citare un frammento di una Circolare del 18 aprile 1945 firmata dal Capo della Provincia di Imperia Ermanno di Marciano:

“A datare dal 21 aprile 1945 - XXIII, è vietata qualsiasi produzione e vendita di gelati. I contravventori saranno puniti con la chiusura dell’esercizio e con le sanzioni pecuniarie e penali stabilite dalle disposizioni in vigore.”


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